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    Mobbing: Sentenza numero 2142/2017 Corte di Cassazione

    Redazione SinlaborDi Redazione Sinlabor26 Giugno 2017

    Con la sentenza  numero 2142/2017 la corte di Cassazione ha chiarito che per potersi parlare di mobbing è necessario, innanzitutto, che la vittima subisca da parte del datore di lavoro, di un suo preposto o di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi una serie di comportamenti persecutori, sistematici e prolungati nel tempo, sia illeciti che singolarmente leciti.

    Il secondo elemento costitutivo del mobbing è rappresentato dalla lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente.

    Vi deve essere, poi, un nesso eziologico tra le condotte sopra descritte e il pregiudizio all’integrità psico-fisica e/o alla dignità della vittima.

    Infine, il mobbing richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo, ovverosia dell’intento persecutorio che unifica di tutti i comportamenti lesivi.

    La sentenza, si è occupata di un’azione di risarcimento danni per mobbing, avanzata da un dipendente al quale erano state assegnati compiti esecutivi, estremamente semplici, non consoni alla qualifica rivestita, che ne avevano comportato lo svuotamento delle mansioni.

    Il dipendente era stato anche lasciato inattivo e isolato per molto tempo, senza scrivania e ufficio, costretto in piedi in un corridoio fino a quando non venne assegnato allo svolgimento “di pratiche cimiteriali” ed accompagnato all’entrata del cimitero municipale ove gli veniva detto che “quella era la sua sede di lavoro”.

    Le testimonianze rese nel corso del giudizio hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un comprovato danno biologico. Rileva anche, il comportamento degli colleghi della vittima “che allontanano il soggetto scomodo temendo, a loro volta, di essere oggetto di ritorsione.

    E’ stata confermata, pertanto,  la sentenza della Corte territoriale che ha ritenuto che “la sistematica esposizione del lavoratore ad atti vessatori con azione volta alla negazione stessa dell’individuo e della sua autostima, aveva provocato l’insorgere di una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno all’immagine e alla professionalità, pure derivanti dal demansionamento e dalla complessiva azione dell’amministrazione, che nell’insieme aveva assunto i caratteri del mobbing per la analitica motivazione in ordine alle risultanze della c.t.u. medico-legale e alla percentuale del danno biologico, nonché per il nesso tra comportamento mobbizzante e ulteriori danni non patrimoniali connessi alla lesione dell’immagine e della professionalità”.

    Quindi, se il lavoratore riesce a provare, come nel caso che ci occupa, il rapporto causale fra il danno subito e le persecuzioni patite sul lavoro, ha diritto a essere risarcito.

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